Come un campo lasciato a maggese

Semina il maggese quando la terra è ancora leggera;
rivoltalo a primavera: e l'estate, al suo ritorno,
non t'indurrà in inganno.
Il maggese protegge dai mali ed acquieta i fanciulli

Esiodo

 

In agricoltura il maggese è lo stato dei terreni che vengono messi a riposo per un certo tempo, ad esempio una stagione, perché possano ritrovare una ricca fertilità. Se un campo fosse coltivato continuamente perderebbe il nutrimento necessario alle piante. In questo tempo di riposo la terra si rigenera, sotto lo sguardo dell'agricoltore che non l'abbandona, ma se ne prende cura aspettando con pazienza il momento in cui potrà riprendere la semina.

Può sembrare strano parlare di campi lasciati a maggese oggi, in piena pandemia, mentre siamo privati di tutto ciò che conta per noi, della vicinanza, degli abbracci, del lavoro, della salute, della scuola, e, perché nasconderlo, anche delle meritate vacanze. 

Vorrei che i pensieri che condividerò vengano letti per quello che rappresentano, un particolare angolo di visuale sul problema, quello del nostro mondo interno, che naturalmente non sminuisce tutte le altre implicazioni reali e concrete di questo nostro difficilissimo periodo: quelle sanitarie prima di tutto, quelle economiche e politiche.

Siamo pieni di incertezze e di paure per il futuro, oscilliamo tra l'angoscia e la negazione, siamo arrabbiati, stiamo perdendo la fiducia e la speranza. I nostri eroi non sono più tali, li credevamo personaggi onnipotenti in camice, tuta e mascherina e invece stiamo scoprendo che sono uomini, capaci, coraggiosi, generosi, ma uomini. E allora ci arrabbiamo, li denigriamo, in modo inaccettabile. Anche gli scienziati ci hanno delusi, hanno a volte sbagliato, litigano tra di loro, ma soprattutto non sono onniscienti, non ci danno la certezza che si troverà il modo di sconfiggere il virus. Non ci hanno risparmiato il confronto con la nostra fragilità, con la insopportabile evidenza che l'umanità è tenuta in scacco da un essere infinitesimamente piccolo.

La nostra vita è cambiata in pochi giorni, la non prevedibilità, la non solidità della nostra esperienza è evidente, ci riguarda  da vicino. Chandra Livia Candiani (intervista a 7- marzo 2020) ci ricorda che "le catastrofi, le carestie, i terremoti, le guerre sono state per tanto tempo altrove. Il mito del controllo è crollato. La malattia e la morte sono qui, tra noi. Eppure si avverte la fretta, fretta che tutto passi, fretta di tornare al mondo di prima, come se niente fosse accaduto."

Intorno percepiamo nervosismo, rabbia, delusione, sentimenti spesso giustificati ma altrettanto spesso suscitati dal nostro non riuscire a tollerare quello che ci sta succedendo, per il troppo dolore, la troppo profonda angoscia, ma anche, spesso, per una nostra incapacità a fermarci, un nostro dibatterci scompostamente con la pretesa che "tutto torni come prima". Tutto:  il lavoro, la scuola, i negozi, ora il Natale, il Capodanno. E sì, abbiamo ragione! Abbiamo ragione rispetto al nostro modo solito di porci di fronte alla vita, siamo abituati ad affrontare le situazioni che ci si presentano cercando subito un modo per piegare la realtà al nostro volere, senza fermarci a pensare,  tollerare, aspettare fino a che il quadro si completi davanti a noi. E questa modalità, scelta come analgesico per  risolvere in fretta il dolore, in realtà ci porta a ritrovarlo continuamente sul nostro cammino.

La vita della società umana è composta da molteplici aspetti. La scienza ha lo scopo di scoprire, di trovare soluzioni, la politica di applicarle. A noi tutti il compito di collaborare alle soluzioni, anche quando, come oggi, la miglior collaborazione viene dall'accettare che non esiste una soluzione immediata e che quindi dobbiamo fermarci, sostare, saper-stare senza agire, con i dubbi e l'incertezza.

Il poeta John Keats definì capacità negativa  “… quella capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze attraverso i misteri e i dubbi , senza lasciarsi andare a un’agitata ricerca di fatti e ragioni.” Questo pensiero venne utilizzato dallo psicoanalista Bion per descrivere il suo modello psicoanalitico, che certamente non può essere qui riportato perché non è lo scopo di questo articolo. Possiamo però, anche se superficialmente, intendere un  invito all'analista - ma direi all'uomo - a saper stare nel dubbio e nella confusione,  a cercare di ascoltare e capire, ma anche non capire per non imboccare strade scontate, scegliere soluzioni buone per tutte le stagioni, trovate con la razionalità e non con la ricchezza del cuore, dell'immaginazione, senza lo stupore e la meraviglia  della scoperta.

Il silenzio, la solitudine, la forzata inattività per molti di noi possono essere molto difficili da tollerare. La realtà con cui dobbiamo confrontarci è così dura e angosciante da farci attivare difese spesso disfunzionali. E' difficile immaginare che rimanere in contatto con questi sentimenti sia una cosa utile e possibile, difficile credere che stare con la consapevolezza del dolore sia compatibile anche con il coltivare la speranza e con l'agire per rendere le cose migliori. Come in ogni lutto, fuggire la sofferenza rischia però di diventare una corsa continua, inseguiti e raggiunti dall'angoscia appena ci fermiamo. Ma scegliere consapevolmente di vivere la sofferenza è altro, ci permette di rimanere nel dolore il tempo necessario per comprendere che riusciamo a sopportarlo e a trovare vie uniche e creative per superarlo.

Credo che la sconvolgente  costatazione di un grado altissimo di indifferenza per il numero spaventoso di morti  sia in parte  da ascrivere davvero ad una incapacità di affrontare il dolore del lutto. Stiamo perdendo una generazione, quella degli anziani e dei cosiddetti grandi anziani, i nostri genitori, i nostri nonni. Possiamo inorridire davanti ai dissennati comportamenti di chi vuole andare a sciare o a fare l'aperitivo e possiamo anche, a ragione, pensare che in parte  sia dovuto a mancanza di umanità e di senso di responsabilità. Ma credo che se una così grande parte di persone si scopre cieca e sorda di fronte a quello che sta succedendo debbano esserci in atto meccanismi più profondi di negazione, di allontanamento dalla realtà e dal dolore, meccanismi individuali e sociali che debbono essere osservati con la massima attenzione.

Per tornare da dove siamo partiti, ai campi lasciati a maggese..... l’uomo come un campo, ha bisogno di un “tempo vuoto”, un tempo silenzioso, che rallenta, che permetta il contatto profondo con se stesso, per non esaurire le risorse interiori.

Questo tempo in cui  potersi  prendere cura di sé, ascoltarsi in profondità rallentando gli intensi ritmi delle attività quotidiane e delle relazioni con gli altri in questi mesi lo abbiamo avuto e probabilmente lo avremo ancora a lungo. Ciò che sembra, e veramente è, una limitazione può diventare una opportunità di conoscenza di sé, allenamento a frequentare la solitudine e comprendere le nostre emozioni e sentimenti, senza fuggire o esserne travolti. A patto di non cercare di riprodurre, nel chiuso delle nostre case, i ritmi di sempre, correndo da una attività all'altra, navigando per ore in Rete, o rimanendo al telefono senza interruzione.

Per l'equilibrio psicologico dell'essere umano è  vitale mantenere questo profondo contatto con il nucleo più profondo di sé, sede della nostra creatività e autenticità, poter dialogare con noi stessi senza ricercare continue stimolazioni provenienti dall'esterno.

Penso che molto spesso abbiamo trascinato anche i bambini e i ragazzi nel fare senza sosta, abbiamo proposto attività e stimoli continui nel timore che non rimanessero al passo rispetto alla corsa del mondo, o che si annoiassero se non continuamente impegnati in attività "ricreative"  o di apprendimento. Ci siamo scordati quanti pensieri creativi e nuovi sono figli della noia!

Per concludere vorrei riportare l' angolatura da cui osservare la nostra vita "chiusa"  che ci propone la poetessa Chandra Livia Candiani. Racconta di non considerare  questo tempo di fermo obbligato una «sospensione dalla vita», piuttosto il suo opposto, «quintessenza dell’osservazione di cosa sto facendo della mia esistenza, del mio pensiero, del mio tempo, di quello che conta e di quello che è superfluo, delle relazioni buone e di quelle che non nutrono o fanno danno. Di come ricevo il mondo e di cosa gli porto in dono».

 

Sabina Dal Pra' Nielsen

 

 

                Andreuccetti Alessandro - Campi a maggese

 

 

 

L’uomo come un campo, ha bisogno di un “tempo vuoto”,
un tempo silenzioso, che rallenta,
che permetta il contatto profondo con se stesso,
per non esaurire le risorse interiori.
Per l'equilibrio psicologico dell'essere umano
è vitale mantenere questo profondo contatto con il nucleo più profondo di sé,
sede della nostra creatività e autenticità,
poter dialogare con noi stessi senza ricercare continue stimolazioni provenienti dall'esterno.