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PER RIFLETTERE INSIEME

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PER RIFLETTERE INSIEME

Date parole al dolore

 Come aiutare i bambini ad affrontare il lutto

 "Date parole al dolore: il dolore che non parla bisbiglia al cuore

 sovraccarico e gli ordina di spezzarsi" (William Shakespeare, Macbeth)

 

La nostra società erige, da tempo, barriere difensive intorno alla morte. Abbiamo perso i riti, le parole, le abitudini che portavano conforto a chi doveva affrontare un lutto, abbiamo ridotto a scarne comunicazioni il racconto delle malattie e delle perdite, come fossero dei tabù. Mai come nel nostro tempo, per non parlare di questo tempo colpito dalla pandemia, la morte e il morire sono relegati agli ospedali, il commiato ridotto a un rito veloce e asettico. Immersi in questo clima non siamo “allenati” alla condivisione del dolore estremo, abbiamo perso quel supporto sociale che può sostenere nello stare nell'esperienza del lutto, nel condividere il nostro dolore e nell'accogliere il dolore dell’altro. Così, spesso, nonostante tutto il sapere psicologico e pedagogico che abbiamo costruito, troviamo inaffrontabile il dolore della perdita, soprattutto se è un bambino a subirla, e perdiamo le parole e la capacità empatica per stare accanto a chi soffre.

L’incontro del bambino con la morte

Il primo incontro di un bambino con la morte avviene spesso attraverso il mondo animale: l’uccellino trovato sulla via, il gatto investito da un’auto, l’animale domestico con cui il bambino è cresciuto e che muore di vecchiaia. Anche per gli adulti che sono vicini a questo bambino è una “prima volta”, il primo grande dolore a cui si è chiamati a dare senso e conforto. La prima reazione, istintiva, è quella di proteggerlo per evitargli la sofferenza e quindi non dire la verità, o non tutta la verità.

Anna richiede un colloquio all'età di 17 anni, dopo una perdita importante avvenuta tragicamente. Le persone intorno a lei faticano a parlare di quanto successo e lei a condividere la sua pena e il suo terribile senso di colpa. Un ricordo nelle prime sedute ci avvicina a questo dolore. Anna, aveva circa 7 anni, aveva trascorso l’estate in montagna con i genitori, il fratellino di 4 anni e il cagnolino Dick che era stato il loro più grande e fedele compagno di giochi. Al momento di tornare a casa alla fine delle vacanze i genitori dissero che Dick non stava molto bene e sarebbe rimasto per un po’ dal macellaio del paese per essere curato. Tornati a casa, ripresa la scuola Anna, che aveva dentro di sé una percezione inquietante e dolorosa, sentì parlare in casa di cimurro, si informò con la maestra e capì. Capì e si sentì tradita, sola, schiacciata dall’imperativo del silenzio e dai sensi di colpa per non aver avuto abbastanza cura di Dick. Silenzio e sensi di colpa che rischiano di ripetersi ora, nella sua dolorosa vicenda di adolescente.

Ecco, quindi un primo e fondamentale pensiero intorno alla esperienza della morte vissuta da un bambino, ma direi da chiunque: mai silenzio e negazione possono essere di aiuto.

L’esperienza della morte nelle diverse età

Adulti e bambini affrontano le esperienze traumatiche in modi molto differenti. Il raggiungimento di una certa maturità affettiva e cognitiva permette all’adulto di utilizzare una vasta gamma di difese per affrontare con gradualità il dolore e avviarsi, con le proprie risorse interne, nel percorso di elaborazione del lutto. Può, inoltre, mettere in parole la propria pena, condividerla e in questo modo ricevere conforto e sostegno, anche se questo diviene possibile solo “dopo”, dopo che il dolore si è inciso prima sulla pelle e nel corpo in cui penetra occupando ogni spazio. Poi finalmente le parole compaiono, con l’urgenza di essere raccontate e condivise. Il bambino nasce con un apparato psichico le cui meravigliose potenzialità devono ancora svilupparsi; per questo dipende totalmente dall’adulto per la sua vita fisica ma anche per quella psichica. È quindi più vulnerabile e necessita dell’adulto per sentirsi protetto e affrontare emozioni e sentimenti che altrimenti lo travolgerebbero. È soprattutto la madre o in genere chi si prende cura del bambino, che può aiutarlo, decifrando, traducendo per lui sentimenti ed emozioni per restituirglieli elaborati, “digeriti”, come fa per ogni esperienza, attraverso la comprensione empatica, le parole, ma soprattutto il tono della voce, la melodia, la vicinanza fisica. Nei primissimi mesi ed anni di vita, quando è inscindibile l’unione tra mente e corpo, l’espressione del dolore e dell’angoscia, come tutte le emozioni, si manifesterà come una reazione psicosomatica, attraverso il pianto disperato e inconsolabile, ma più spesso con problemi nella sfera dell’alimentazione, del sonno, con comportamenti regressivi come succhiarsi il dito o bagnare il letto, tic, oppure con un calo delle difese immunitarie e la conseguente tendenza ad ammalarsi. Manifestazioni che non devono essere di per sé considerate patologiche, ma essere osservate nel loro evolversi. Fino a 4/5 anni il bambino non possiede il senso dell’irreversibile, il concetto di “per sempre” o “mai più”. Quindi potrà chiedersi quando torna la persona che è morta, dove è andata, interpreterà alla lettera le parole che siamo soliti usare per indicare la morte (se n’è andato...la scomparsa... ha concluso il suo viaggio...) con quel pensiero spietatamente logico che lo caratterizza. Il bambino a questa età vuole capire e coglie perfettamente le contraddizioni tra le parole e lo stato d’animo di chi gli sta intorno. Conosce inoltre l’esperienza della mancanza, ogni separazione è per lui una perdita da affrontare, per la quale ha iniziato ad attrezzarsi. Dopo questa età il bambino, in grado di comprendere il concetto di morte, può anche erigere difese quando sperimenta come un dolore insopportabile i sentimenti di nostalgia, disperazione, rabbia, senso di impotenza connessi al lutto. Così può passare da comportamenti esplosivi a momenti di isolamento e negazione, come se non fosse successo nulla.

Eleonora, 8 anni, urla con disperazione alla sua maestra “Ma perché proprio a me, perché la mia mamma, ma non devono morire prima i nonni, mi avete raccontato che si muore quando si è vecchi....” Inconsolabile piange a lungo fuori dall’aula, poi, all'intervallo va a giocare con i compagni.

Può tentare di “indurire” il suo cuore evitando di stabilire rapporti affettivi per non trovarsi a soffrire nuovamente. Questa difesa è spesso adottata dagli adolescenti, per i quali può essere molto destabilizzante avvertire così forte il dolore di una mancanza in un momento in cui cercano invece di raggiungere la loro autonomia. Passare dai sentimenti più strazianti a momenti in cui i bambini giocano dimentichi, sembra, del dolore non è un comportamento “insensibile”, è una difesa necessaria perché ognuno ha una sua personale capacità di tollerare l'esposizione al dolore e di affrontare la realtà. Non è da biasimare un bambino attratto dai giochi e dagli amici sebbene abbia perso una persona cara, ma nemmeno l'adulto che si accorge di provare fastidio, sconcerto, forse anche invidia di fronte alla capacità del piccolo di rimanere ancorato alla vita, cosa per lui molto più difficile. Solo riconoscendo questo sentimento si può lasciar andare il bambino senza, inconsapevolmente, trattenerlo nel dolore.

Aiutare il bambino, esperienza possibile

La fatica di parlare ai bambini della morte nasce dalla consapevolezza della loro vulnerabilità. Quando il lutto colpisce un bambino, è come se avvertissimo il rischio del crollo della sua fiducia di base: potrà ancora fidarsi di un adulto che non l’ha saputo proteggere dalla morte? Come farà a fare i conti con la perdita di quella idea di onnipotenza che i bambini attribuiscono ai genitori, spesso ben oltre l’età in cui la ragione suggerisce che nessuno in terra è onnipotente? È però proprio il senso di smarrimento, la non disponibilità a condividere il dolore che daranno al bambino la sensazione che l'adulto sia troppo debole, spaventato e quindi incapace di proteggerlo e aiutarlo. Quando la morte riguarda un familiare vicino, un genitore, un fratello, spesso il bambino sperimenta una doppia perdita. In questi casi l’evento arriva come un uragano a sconvolgere l’assetto di una famiglia. Il genitore superstite è gravato dal doppio compito di sopportare ed elaborare il proprio dolore e sostenere quello del figlio. Nessuno è mai pronto per questo, in particolare se si tratta del proprio figlio.

Marco ha 4 anni e mezzo quando muore il papà in un incidente, il fratello ne ha 11. La mamma, sconvolta dal dolore, fatica ad alzarsi dal letto, la famiglia viene accudita dai nonni. Lo incontro per una consultazione, sembra presentare una improvvisa regressione nel linguaggio; credo che la richiesta nasca soprattutto dal fatto che nessuno sa come parlargli. Marco inizia immediatamente a giocare, prende la famiglia, mette il padre nel punto più lontano della stanza con un’auto vicina. Poi prende la mamma, la lascia cadere per terra, la copre con un foglio e dice che è morta.

Il silenzio intorno ai sentimenti che l’evento luttuoso suscita lascia il bambino solo con emozioni difficili da governare e da comprendere, con una realtà che, proprio perché innominabile, si riempie di fantasie angosciose e di spiegazioni bizzarre. Marco, nel gioco, racconta la sua verità, cioè il sentire vicino a sé una mamma “morta”, una mamma non disponibile alla relazione. Non lasciare che il silenzio circondi la morte significa porsi in una disposizione d'animo rivolta all’ascolto profondo, allo stare insieme nel condividere la verità e il dolore che ne deriva, al permettere che parole e silenzi si riempiano di significato. Se un adulto amorevole si pone in ascolto, il bambino troverà il coraggio di fare domande, anche le più dolorose o strane, a cui è necessario che l’adulto risponda con sincerità, all’interno della visione familiare della vita e della morte, sia essa religiosa o atea. Affrontare il dolore non significa non averne paura, ma riconoscerlo come parte inevitabile della vita, e il soffrire come esperienza del tutto normale. Se l’adulto accetta di sentire il proprio dolore trasmetterà al bambino un messaggio di incalcolabile valore: l’universalità dell’esperienza, il suo essere, sebbene sconvolgente, condivisibile e alla fine superabile. Può essere utile trovare un momento intimo, che si ripeta ogni giorno, per stare con il bambino e parlare di quello che è successo, dei sentimenti che si provano, accogliendo le domande, senza forzarle. L’intimità e la complicità possono essere favorite dalla lettura di un libro, la visione di un film, che prestino parole quando non si è in grado di trovarne. Ricordare, quando il momento più acuto del dolore si è un po’ affievolito, le esperienze belle tra[1]scorse con chi non c’è più, rinsalda la forza di quel buono rimasto dentro di noi che può trasformare la pena in nostalgia. Non è solo una questione di ricordi: è un’esperienza sempre viva, presente, quello che siamo lo dobbiamo anche alla relazione con chi non c’è più.

Sabina Dal Pra' Nielsen

 Pubblicato sulla rivista Il Folletto 1/2021 - Istituto svizzero Media e Ragazzi ISMR

 

 

 Nonostante tutto il sapere psicologico e pedagogico che abbiamo costruito,

troviamo inaffrontabile il dolore della perdita,

soprattutto se è un bambino  a subirla,

e perdiamo le parole e la capacità empatica per stare accanto a chi soffre.

  

Come un campo lasciato a maggese

Semina il maggese quando la terra è ancora leggera;
rivoltalo a primavera: e l'estate, al suo ritorno,
non t'indurrà in inganno.
Il maggese protegge dai mali ed acquieta i fanciulli

Esiodo

 

In agricoltura il maggese è lo stato dei terreni che vengono messi a riposo per un certo tempo, ad esempio una stagione, perché possano ritrovare una ricca fertilità. Se un campo fosse coltivato continuamente perderebbe il nutrimento necessario alle piante. In questo tempo di riposo la terra si rigenera, sotto lo sguardo dell'agricoltore che non l'abbandona, ma se ne prende cura aspettando con pazienza il momento in cui potrà riprendere la semina.

Può sembrare strano parlare di campi lasciati a maggese oggi, in piena pandemia, mentre siamo privati di tutto ciò che conta per noi, della vicinanza, degli abbracci, del lavoro, della salute, della scuola, e, perché nasconderlo, anche delle meritate vacanze. 

Vorrei che i pensieri che condividerò vengano letti per quello che rappresentano, un particolare angolo di visuale sul problema, quello del nostro mondo interno, che naturalmente non sminuisce tutte le altre implicazioni reali e concrete di questo nostro difficilissimo periodo: quelle sanitarie prima di tutto, quelle economiche e politiche.

Siamo pieni di incertezze e di paure per il futuro, oscilliamo tra l'angoscia e la negazione, siamo arrabbiati, stiamo perdendo la fiducia e la speranza. I nostri eroi non sono più tali, li credevamo personaggi onnipotenti in camice, tuta e mascherina e invece stiamo scoprendo che sono uomini, capaci, coraggiosi, generosi, ma uomini. E allora ci arrabbiamo, li denigriamo, in modo inaccettabile. Anche gli scienziati ci hanno delusi, hanno a volte sbagliato, litigano tra di loro, ma soprattutto non sono onniscienti, non ci danno la certezza che si troverà il modo di sconfiggere il virus. Non ci hanno risparmiato il confronto con la nostra fragilità, con la insopportabile evidenza che l'umanità è tenuta in scacco da un essere infinitesimamente piccolo.

La nostra vita è cambiata in pochi giorni, la non prevedibilità, la non solidità della nostra esperienza è evidente, ci riguarda  da vicino. Chandra Livia Candiani (intervista a 7- marzo 2020) ci ricorda che "le catastrofi, le carestie, i terremoti, le guerre sono state per tanto tempo altrove. Il mito del controllo è crollato. La malattia e la morte sono qui, tra noi. Eppure si avverte la fretta, fretta che tutto passi, fretta di tornare al mondo di prima, come se niente fosse accaduto."

Intorno percepiamo nervosismo, rabbia, delusione, sentimenti spesso giustificati ma altrettanto spesso suscitati dal nostro non riuscire a tollerare quello che ci sta succedendo, per il troppo dolore, la troppo profonda angoscia, ma anche, spesso, per una nostra incapacità a fermarci, un nostro dibatterci scompostamente con la pretesa che "tutto torni come prima". Tutto:  il lavoro, la scuola, i negozi, ora il Natale, il Capodanno. E sì, abbiamo ragione! Abbiamo ragione rispetto al nostro modo solito di porci di fronte alla vita, siamo abituati ad affrontare le situazioni che ci si presentano cercando subito un modo per piegare la realtà al nostro volere, senza fermarci a pensare,  tollerare, aspettare fino a che il quadro si completi davanti a noi. E questa modalità, scelta come analgesico per  risolvere in fretta il dolore, in realtà ci porta a ritrovarlo continuamente sul nostro cammino.

La vita della società umana è composta da molteplici aspetti. La scienza ha lo scopo di scoprire, di trovare soluzioni, la politica di applicarle. A noi tutti il compito di collaborare alle soluzioni, anche quando, come oggi, la miglior collaborazione viene dall'accettare che non esiste una soluzione immediata e che quindi dobbiamo fermarci, sostare, saper-stare senza agire, con i dubbi e l'incertezza.

Il poeta John Keats definì capacità negativa  “… quella capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze attraverso i misteri e i dubbi , senza lasciarsi andare a un’agitata ricerca di fatti e ragioni.” Questo pensiero venne utilizzato dallo psicoanalista Bion per descrivere il suo modello psicoanalitico, che certamente non può essere qui riportato perché non è lo scopo di questo articolo. Possiamo però, anche se superficialmente, intendere un  invito all'analista - ma direi all'uomo - a saper stare nel dubbio e nella confusione,  a cercare di ascoltare e capire, ma anche non capire per non imboccare strade scontate, scegliere soluzioni buone per tutte le stagioni, trovate con la razionalità e non con la ricchezza del cuore, dell'immaginazione, senza lo stupore e la meraviglia  della scoperta.

Il silenzio, la solitudine, la forzata inattività per molti di noi possono essere molto difficili da tollerare. La realtà con cui dobbiamo confrontarci è così dura e angosciante da farci attivare difese spesso disfunzionali. E' difficile immaginare che rimanere in contatto con questi sentimenti sia una cosa utile e possibile, difficile credere che stare con la consapevolezza del dolore sia compatibile anche con il coltivare la speranza e con l'agire per rendere le cose migliori. Come in ogni lutto, fuggire la sofferenza rischia però di diventare una corsa continua, inseguiti e raggiunti dall'angoscia appena ci fermiamo. Ma scegliere consapevolmente di vivere la sofferenza è altro, ci permette di rimanere nel dolore il tempo necessario per comprendere che riusciamo a sopportarlo e a trovare vie uniche e creative per superarlo.

Credo che la sconvolgente  costatazione di un grado altissimo di indifferenza per il numero spaventoso di morti  sia in parte  da ascrivere davvero ad una incapacità di affrontare il dolore del lutto. Stiamo perdendo una generazione, quella degli anziani e dei cosiddetti grandi anziani, i nostri genitori, i nostri nonni. Possiamo inorridire davanti ai dissennati comportamenti di chi vuole andare a sciare o a fare l'aperitivo e possiamo anche, a ragione, pensare che in parte  sia dovuto a mancanza di umanità e di senso di responsabilità. Ma credo che se una così grande parte di persone si scopre cieca e sorda di fronte a quello che sta succedendo debbano esserci in atto meccanismi più profondi di negazione, di allontanamento dalla realtà e dal dolore, meccanismi individuali e sociali che debbono essere osservati con la massima attenzione.

Per tornare da dove siamo partiti, ai campi lasciati a maggese..... l’uomo come un campo, ha bisogno di un “tempo vuoto”, un tempo silenzioso, che rallenta, che permetta il contatto profondo con se stesso, per non esaurire le risorse interiori.

Questo tempo in cui  potersi  prendere cura di sé, ascoltarsi in profondità rallentando gli intensi ritmi delle attività quotidiane e delle relazioni con gli altri in questi mesi lo abbiamo avuto e probabilmente lo avremo ancora a lungo. Ciò che sembra, e veramente è, una limitazione può diventare una opportunità di conoscenza di sé, allenamento a frequentare la solitudine e comprendere le nostre emozioni e sentimenti, senza fuggire o esserne travolti. A patto di non cercare di riprodurre, nel chiuso delle nostre case, i ritmi di sempre, correndo da una attività all'altra, navigando per ore in Rete, o rimanendo al telefono senza interruzione.

Per l'equilibrio psicologico dell'essere umano è  vitale mantenere questo profondo contatto con il nucleo più profondo di sé, sede della nostra creatività e autenticità, poter dialogare con noi stessi senza ricercare continue stimolazioni provenienti dall'esterno.

Penso che molto spesso abbiamo trascinato anche i bambini e i ragazzi nel fare senza sosta, abbiamo proposto attività e stimoli continui nel timore che non rimanessero al passo rispetto alla corsa del mondo, o che si annoiassero se non continuamente impegnati in attività "ricreative"  o di apprendimento. Ci siamo scordati quanti pensieri creativi e nuovi sono figli della noia!

Per concludere vorrei riportare l' angolatura da cui osservare la nostra vita "chiusa"  che ci propone la poetessa Chandra Livia Candiani. Racconta di non considerare  questo tempo di fermo obbligato una «sospensione dalla vita», piuttosto il suo opposto, «quintessenza dell’osservazione di cosa sto facendo della mia esistenza, del mio pensiero, del mio tempo, di quello che conta e di quello che è superfluo, delle relazioni buone e di quelle che non nutrono o fanno danno. Di come ricevo il mondo e di cosa gli porto in dono».

 

Sabina Dal Pra' Nielsen

 

 

                Andreuccetti Alessandro - Campi a maggese

 

 

 

L’uomo come un campo, ha bisogno di un “tempo vuoto”,
un tempo silenzioso, che rallenta,
che permetta il contatto profondo con se stesso,
per non esaurire le risorse interiori.
Per l'equilibrio psicologico dell'essere umano
è vitale mantenere questo profondo contatto con il nucleo più profondo di sé,
sede della nostra creatività e autenticità,
poter dialogare con noi stessi senza ricercare continue stimolazioni provenienti dall'esterno.

  

Vi prego: volgete la vostra attenzione a ciò che vi indico: il bambino

 Nei 150 anni dalla nascita di Maria Montessori

 

 Nata a Chiaravalle, Ancona, il 31 agosto 1870, Maria Montessori si trasferisce ancora piccola a Roma dove completa gli studi laureandosi nel 1896 con una tesi sperimentale in psichiatria. Se non è la prima donna medico italiana è la prima a dedicarsi alla professione.

Durante gli studi universitari si interessa alla pediatria ed alla psichiatria fino a diventare assistente alla Clinica psichiatrica universitaria di Roma dove si dedica ai bambini con deficit mentali.

Montessori, che ha vissuto duramente nel periodo universitario l’antagonismo con i colleghi maschi, la rigida morale del tempo che considerava disdicevole per una donna occuparsi di ciò che non fosse frivolezza o attività strettamente legate alla vita familiare, nel settembre del 1896 parla al Congresso Internazionale di Berlino dei diritti delle donne e nel giugno 1899 si reca a Londra per denunciare di nuovo la difficile condizione femminile e il lavoro minorile.

Viaggiando attraverso l’Europa ha l’occasione per osservare e valutare varie esperienze educative e pedagogiche proposte a bambini  svantaggiati. In particolare approfondisce gli studi di J.M. Itard (che studiò il bambino selvaggio dell’Aveyron) ed il lavoro di E. Seguin entrambi entrati in contatto con le difficoltà dell’apprendimento infantile attraverso un rapporto educativo piuttosto che con un intervento medico. Proprio da questi studiosi Montessori scopre l’educazione sensoriale, nei particolari di contrasti e gradazioni e cerca di costruire oggetti concreti che possano suscitare interesse in quelle piccole menti fragili per rendere loro possibile le acquisizioni di base. Non si trattava più quindi di fare diagnosi sui vari disturbi mentali, ma di preparare un ambiente e dei materiali che potessero sviluppare le capacità dei bambini per facilitare il loro percorso di apprendimento.

Su questi criteri Montessori imposta il proprio lavoro con i bambini del manicomio e dopo due anni di intenso impegno un gruppo di loro riuscirà a conseguire la licenza elementare.

Questo successo la spingerà a riflettere a fondo sullo “spreco dell’infanzia” operato sui bambini svantaggiati e di conseguenza anche sui “normali”, inizierà così ad occuparsi anche di piccoli bambini “sani”.

Il 6 gennaio 1907 in via dei Marsi 58 a Roma viene inaugurata una piccola costruzione detta “casa socializzata” all’interno di un grande cortile, circondato da nuove case popolari, che accoglierà i piccoli che abitano lì per alleviare, sostenere e migliorare il lavoro educativo delle madri.

Montessori prepara un ambiente arredato a misura comoda ed agevole per i piccoli bambini e via via aggiungerà mensole su cui verranno messi a disposizione e in ordine oggetti, materiali e piccoli tappeti per “lavorare” anche a terra.

“Preparare l’ambiente ed osservare”, questa la consegna richiesta alla persona che l’aiuta nella nuova esperienza, che come lei non è una maestra “impostata”. Candida Nuccitelli infatti è la figlia del portiere e con precisione e sincerità riferirà alla dottoressa come si comportano i bambini in quell’ambiente, come scelgono le attività, come amano pulire e riordinare, come riescono anche ad aiutarsi vicendevolmente senza l’imposizione dell’adulto.

In questo luogo, un “laboratorio”, emergerà un bambino “nuovo”, dai “caratteri psichici insospettati” che sa scegliere l’attività, riordinare gli oggetti, che sa concentrarsi, che vede i propri errori e li affronta per correggersi.

Montessori nel tempo continua ad osservare i bambini in azione e pensa e progetta risposte ai loro bisogni e ai loro interessi; il suo è un modo di educare, di insegnare innovativo, opposto a chi progetta in base ad un’idea propria.

La proposta pedagogico-didattica della Montessori si diffonde rapidamente così come le “Case” per i piccoli bambini fino ai 6 anni. Tra il 1910 ed il 1913 viene promossa la continuazione dell’esperienza nelle classi elementari e il risultato del lavoro svolto viene presentato in un corso internazionale ad un numeroso gruppo di allievi insegnanti giunti da tutto il mondo. Da qui l’apertura di numerose scuole in Italia e nel Mondo.

La dottoressa, che ormai ha rinunciato al lavoro universitario, viene invitata ovunque a tenere conferenze e corsi di specializzazione accolta come la “liberatrice dell’infanzia”. Sempre più numerosi saranno gli adulti preparati da lei che nell’affrontare l’insegnamento abbandonano la logica del giudizio e la linea di una didattica rigida, a favore di un lavoro autonomo dei bambini, possibile realtà in un ambiente preparato che consente la “libera scelta”.

Ecco che allora le scuole si trasformano in laboratori di ricerca, di attività interessanti, di concentrazione, dove è possibile la ripetizione spontanea, luoghi di scambio e di socializzazione, unica via a quella che Montessori chiamerà “normalizzazione individuale” che conduce all’obiettivo finale che lei stessa definirà “società per coesione”.

La Montessori definisce “normalizzazione” il processo attraverso il quale il bambino viene messo in condizione di poter manifestare sè stesso, sostenuto nelle sue esigenze di crescita legate alla sua particolare forma mentale ed alla sua emotività.

Nel difficile clima che precede la seconda guerra mondiale, attanagliata dalle pericolose nascenti dittature, la Montessori parla, ovunque si trovi, di Pace e dell’importanza, fin dai primi anni, della diffusione di una Educazione alla Pace.

“Io credo che mai la società umana abbia vissuto sotto minacce come quelle del tempo presente. Per questo è urgente un appello per riflettere su ciò che realmente sono libertà e dignità umane. Durante tutta la mia vita ho proclamato la necessità della libertà di scelta, dell’indipendenza di pensiero e della dignità umana. Tuttavia ritengo che la vera libertà, quella interiore, non possa essere donata. Non può nemmeno essere conquistata. Può solamente essere costruita, dentro di sé, come parte della personalità e, se questo avviene, non potrà più essere perduta”.

Nel 1939 accetta di recarsi in India per organizzare un corso di specializzazione invitata da un gruppo di teosofi anglo-indiani, aperto a tutte le religioni che diffonde la non violenza ed il rispetto per tutti gli esseri umani.

In Europa è scoppiata la guerra per cui la Montessori è formalmente prigioniera degli Inglesi che comunque le permettono di continuare a lavorare e ad insegnare: proprio in quei luoghi la dottoressa comprende appieno come la realtà dell’infanzia non ha confini né differenze.

In India sviluppa l’idea di un percorso di “Educazione cosmica”, tema di altissima lungimiranza e modernità, che propone studi precisi sulla natura e sugli ambienti e sviluppa l’idea di un “compito cosmico” di ogni specie e di “interdipendenza” tra esseri viventi e non viventi, di “servizio alla vita”, temi che suscitano grande interesse a partire da sette anni.

Rientra in Europa a guerra finita, accolta ovunque con interesse ed onore. Torna successivamente in India e viaggia ancora sia in Italia sia all’estero. Il 6 maggio 1952 a Noordxjik, in Olanda, lascia la vita terrena.

In chiusura al Congresso di Londra del 1951 ribadisce a chi la applaude il suo pensiero più profondo: “Vi prego: il più grande onore e la maggior gratitudine che potete darmi è di volgere la vostra attenzione a ciò che vi indico: il bambino”

Doretta Monti